sabato 7 maggio 2016

Primo giorno di laboratorio: la meraviglia




C’è chi arriva la mattina allo sportello dell'accoglienza per avere sicurezza dell’orario.
Chi arriva mezz’ora prima dell'appuntamento e aspetta. 

Del resto l’hanno dichiarato fin dall’inizio che il tempo è tutto ciò che hanno.
Di sicuro hanno un concetto diverso dal nostro. Dal mio, che sono fagocitata dal marasma degli impegni, con l’ansia di dover far fronte a tutti i miei ruoli: donna, madre, attrice, insegnante, domestica, figlia, amica…

Arrivano belli, profumati e lo dichiarano:
- Ha visto? Mi sono anche truccata per l’occasione. 
- Io ho messo un nuovo giubbino. L'ho preso al guardaroba lunedì.

Solo uno di loro arriva con un po’ di ritardo:

- Scusa - con lui ce l’ho fatta a ricevere il “tu” fin dal secondo incontro, evviva! - ho incontrato un amico che non vedevo da secoli, mentre venivo qui! Non voleva lasciarmi andare via! Alla fine gli ho detto che avevo un impegno importantissimo con un medico, una visita fondamentale. 

Una di loro conferma che, sì, beh, anche per lei venire a questo laboratorio è un po’ un modo di curarsi, di prendersi cura di sé, curando però non la parte malata, ma rafforzando quella buona, quella sana. Dandole più visibilità e più chance.

La loro capacità di analisi, il loro acume, ancora una volta mi sorprende.

Arriviamo in auditorium, i frati mi spiegano come si accendono le luci, come si spengono, e mi lasciano lì, con loro.

C’è ansia da prestazione, desiderio puro, voglia di fare.
Da entrambe le parti.

Provo a chiedere cos’è il teatro,  che idea hanno. Se dovessero spiegarlo a un marziano, cosa direbbero.

Hanno idee davvero confuse e la difficoltà con la lingua non aiuta, allora chiedo loro di organizzarsi una breve presentazione di se stessi, della loro vita, del perché sono qui… qualsiasi cosa, ma con la consapevolezza di doverlo raccontare “teatralmente”, davanti a noi che saremo il loro pubblico.

E qui comincia la meraviglia. 
I ruoli si invertono e sono io a diventare la loro allieva e discepola…

Inizia lei, per prima, si lancia. Vuole stare in piedi così si sente più a suo agio.
Racconta di sé in chiave psicologica, della sua difficoltà di relazione, della sua gran voglia di leggere, del suo bisogno di tuffarsi in un libro per vivere una vita migliore, più ricca (e non in senso economico). Ha proprietà di linguaggio anche se parla impastata di medicinali. 
Inizia così: 
- A volte penso, mentre parlo con gli altri, che quello che dico non abbia valore e allora comincio a fare discorsi che sembrano scatole, una dentro l’altra.

Le sue braccia sembrano appese, ciondolano, sembrano di troppo, non sa dove metterle, come metterle. 
E mentre parla, mentre racconta della sua vita, del suo rovinoso incontro con la droga, di come abbia imparato a sue spese che la libertà non è un concetto astratto altrimenti può diventare anarchia, si avvicina sempre più a noi che l’ascoltiamo attenti. 
Si sente più sicura in mezzo, piuttosto che davanti e, mentre parla delle sue figlie e del rapporto con loro, ci viene quasi di fianco. 
La dimensione frontale la espone troppo perciò si mimetizza. 
Parla per un bel po’, poi si ferma
Le scatole cominciano a diventare un po’ troppe, se ne accorge e si dà uno stop. 

Sono affascinata, catturata.
Ed è solo la prima persona che parla…
La prima vita che si racconta. 
Anche nella mia testa le scatole diventano tante. 
Le lascio sedimentare e tornerò a scrivere le altre storie. Ne ho bisogno.

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