mercoledì 11 maggio 2016

Le loro storie


Torno a scrivere per mettere chiarezza nella testa, ma soprattutto nel cuore, perché davvero tante sono state le emozioni provate nell’ascoltarli.
Ho chiesto loro di fare una breve presentazione per poi far notare alcune cose su postura, uso della voce, gestualità… 
Avrebbero anche potuto dirmi: 
- Mi chiamo Pinco Pallino, vengo da Canicattì e ho fatto il barista fino a cinque anni fa. Oggi sono disoccupato. 
Fine.

Sarebbe bastato ai fini dell’esercizio teatrale. E invece no, per loro raccontarsi è un’urgenza e si impegnano. Fortemente. Si aprono con una fiducia che ha qualcosa di miracoloso.

Dopo la donna, tocca a un altro, straniero, che racconta del suo amore per l’Italia, un amore coltivato nel suo Paese, da bambino. 
La sua passione per il calcio, per la Juve:

- So tutte le formazioni della Juve dal ’78 al ’82. E’ per questo che sono andato a vivere a Torino, all’inizio.

Poi parla del suo negozio a Milano. Fallito.
Del suo matrimonio. Fallito.
Della sua vita che va a rotoli e che non pare avere più nessuna certezza. 
E allora sbanda: alcol, droga. La strada come unico luogo in cui vivere, una panchina su cui dormire con la bottiglia di fianco come unica compagna.

Lascia - o tralascia - cosa lo abbia fatto svoltare, riprendere un senso a tutto, ma adesso sta meglio, dice.
Ha due figli che ha ripreso a vedere, ma non ha rinnovato il permesso di soggiorno. Lo farà presto perché vuole essere in regola.

È asciutto nella descrizione, diretto, attento all’uso delle parole. Quasi cinematografico. Si pone frontalmente, senza tentennamenti. Ha il pensiero chiaro, lucido.
Stringe un foglio in mano sul quale si è segnato cosa vuole dire, ma non lo usa. È fluido nell’eloquio, diretto, bella energia, sguardo fiero.

Qualcuno comincia a fargli delle domande perché il racconto pare lacunoso, zoppo. 
E allora, tentenna, comincia a passare il peso del corpo da un piede all’altro, contrae i muscoli del viso, le spalle, il respiro si alza. 
E mentre parla della fatica che ha fatto a “ripulirsi”, a riprendere un po’ di dignità, a cercarsi un riparo meno esposto di una panchina in mezzo a una piazza, stringe i pugni. 
Adesso ha voglia di tornare a sedere, è evidente. Ma resta lì. 
Mi fa venire in mente il Buratto della giostra del Saracino. 
Un bersaglio in mezzo alle domande.
Interrompo la giostra.
Si siede. Il foglio ormai appallottolato tra le mani.

Arriva un altro, anche lui vuole stare in piedi. 
Inizia a raccontare che fa parte di una famiglia “tutta studiata”.
Ci tiene a precisarlo perché è laureato anche lui.
Almeno credo di aver capito così… Perché con lui la lingua è davvero un problema. 
Sa l’italiano, è qui da più di trent’anni, ma si fa davvero fatica a capirlo: le “p” e le “b” si confondono, usa i verbi all’infinito, sbaglia i femminili con i maschili e viceversa… e poi parla ad una velocità impressionante! Da record!
Finché è stato seduto, mentre parlavo io o gli altri, faceva fatica ad alzare lo sguardo, le mani sempre sulle ginocchia, in una compostezza d’altri tempi.
Ma appena si mette davanti a noi, si trasforma.
Un’energia pazzesca, un’entusiasmo contagioso, l’occhio aperto, vivace, diretto. Un ritmo nella narrazione fenomenale. 
Anche se non capiamo un acca, ci scappa da ridere lo stesso in alcuni punti perché è così capace di variare i ritmi, di dosare le pause che ti viene da dire: “questa cosa fa ridere di sicuro!”

Qualcosa la capto, per le altre sono costretta ad interromperlo per avere almeno dei puntelli a cui aggrapparmi.

Parla di destino. 
Anzi - come precisa - di destini.
Tre momenti fondamentali della sua storia.
In due ha perso quasi la vita ed è stato salvato per miracolo.
E l’ultimo è questo. Ciò che sta vivendo.

- Evidentemente devo stare in vita. Ma perché? Me lo chiedo ogni giorno e lo chiedo a Dio. Ancora non ho capito la risposta.

Sta per tornare a sedersi, ma si ferma e precisa che ha un carissimo amico che possiede, qui a Milano, un piccolo bar a gestione familiare. Gli ha sempre detto di andarlo a trovare, che è suo ospite, ogni volta che vuole, anche ogni giorno, per pranzo, colazione e cena.

- Il Corano dice che bisogna sempre scegliere la porta più dignitosa, non quella più comoda. Ecco perché vengo all’Opera di San Francesco. Perché è una porta che trasuda dignità.

Torna alla sedia, visibilmente soddisfatto.

Vorrei parlare e commentare, ma appena si siede lui, uno di fianco - come fosse un gioco a molla - scatta in posizione centrale.
E mette le mani avanti:

- Io non parlo di me.
- Va bene, nessun problema - dico - potreste inventare anche tutto quanto, non ha importanza ai fini dell’esercizio. A noi serve vedere, oggi, più il come del cosa.

Anche lui rifiuta la comodità della sedia e inizia parlando in terza persona singolare e al passato remoto:

- Nacque nel lontano 19…, da una famiglia semplice …

Sta di profilo, non si offre mai del tutto. Parla spedito, ma chiaro. La sua storia è ben preparata, diretta. 
Racconta di un uomo che viene in Italia perché ha il sogno delle belle donne italiane e che poi, arrivato qui, si fidanza con una Polacca. 
Lavora, sta bene, ha la macchina, un lavoro dignitoso, poi le cose cominciano un po’ a vacillare e lui non vuol perdere neanche un millimetro della posizione conquistata e accetta qualsiasi cosa pur di mantenerla.

- Ti sei messo rubare? - chiede la donna, interrompendolo.
E lo svela.
E lui, senza scomporsi, si fa svelare:

- Sì. Poi la droga, l’alcol, la strada…

Passa dalla terza, alla prima persona singolare, all’io, senza battere ciglio.
Apre il portafoglio e mostra due foto. Una di quando era felice e aveva tutto: bello, abbronzato, con un bel golf rosso e l’altra, staccata dalla sua prima tessera di Opera San Francesco: il volto gonfio, gli occhi spenti come il maglione che indossa.

- Le porto tutt’e due con me, sempre. Una mi ricorda il meglio e una il peggio. Una il bianco, una il nero. Adesso io voglio vivere in dignità, niente di più. Mi basta questo. Ma nel nero non ci torno.

Si risiede. 

Mi gira quasi la testa per tutte queste emozioni. 
Siamo davvero sicuri che qui la conduttrice del laboratorio sia io? Mi sento un’allieva.
Mi risveglio e cerco di riprendere un tono e un ruolo. 
Comincio a commentare ciascuno di loro in termini di postura, energia, capacità di presa del pubblico, sguardo, ritmo, emozioni mostrate e trattenute.

Loro intervengono cercando sempre di far paragoni con la vita quotidiana.

Ho sempre pensato che il teatro facesse bene anche a quelli che non desiderano farne un mestiere, ma in poche ore ho appreso una quantità pazzesca di applicazioni quotidiane! Fantastico!
E tutte suggerite da loro, il che è sbalorditivo.

Credevo che i senza fissa dimora fossero un po’ avulsi dalla realtà, un po’ dei sospesi dal mondo, indifferenti, preoccupati di altro. E invece, mi sa, che sono dei grandi spettatori che ci osservano, che studiano. Un po’ come un “pubblico del mondo”. Non sono attori dello spettacolo del quotidiano, ma lo guardano e lo commentano.

Partecipano anche alle mie osservazioni su ciascuno di loro e aggiungono sempre qualcosa. Non si offendono mai e sono molto complimentosi, molto generosi. Uno si commuove perfino perché gli hanno detto che sembra un attore americano…  Gli si inumidiscono gli occhi e racconta che da bambino andava a teatro e aveva sempre sognato di poterlo fare…

Guardo l’orologio. Mancano pochi minuti alla fine della lezione. Devono tutti scappare perché alle 17,00 devono mettersi in coda per la doccia, non possono indugiare.

- Non è possibile! 
- È già finita? 
- Ma se ci siamo appena seduti!
- Il tempo è volato!

Beh, non gli avrò fatto capire che non hanno solo tempo, ma che a teatro il tempo vola, sì!


Spengo le luci, mentre parlottano insieme. Li accompagno fuori e mi salutano soddisfatti, dandomi appuntamento alla prossima settimana.

Uno di loro, dopo il saluto, torna indietro, mi guarda e mi dice:

- Sto bene. Sono diverso da quando sono arrivato, ma sto proprio bene.


È ufficiale. Io li adoro!

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